L’irlandese

Parigi 1940. Mentre il pugno nazista si stringe intorno alla città, nella vita di un uomo di pensiero, scrittore semisconosciuto, irrompe l’azione. Negli anni della guerra, tra le file della Resistenza, l’uomo imparerà a formulare messaggi in codice e a maneggiare bombe a mano, sfuggirà di un soffio alla Gestapo e percorrerà centinaia di chilometri dentro scarpe logore accanto alla donna amata. Si meriterà perfino un nome di battaglia: L’Irlandese. Ne uscirà vivo e saprà trasformare tutto questo in arte. Ne uscirà grande. La storia lo ricorderà come Samuel Beckett.

Quando nel settembre del 1939 Samuel Beckett, a dispetto del conflitto appena dichiarato, ritorna a Parigi dalla sua compagna Suzanne Dechevaux-Dumesnil, preferendo i minacciosi venti di guerra francesi all’aria placida ma soffocante della nativa Irlanda, è un uomo apatico e sfiduciato. La scrittura non procede, la traduzione in francese di Murphy neppure. E l’ombra del grande e pomposo James Joyce, al cui servizio ha trovato impiego come segretario, incombe sulla sua creatività. A Parigi, sostenuto dalla dinamica Suzanne, stimolato dalla compagnia di intellettuali e artisti, da Francis Picabia a Marcel Duchamp, forse riuscirà a trovare la sua voce e a dare risposta al terribile quesito di sua madre: «Di quale utilità penseresti mai di essere, tu?». Ma l’occupazione tedesca della città spariglia le priorità. Ora quel che conta è sopravvivere, al minimo grado. E tuttavia Beckett ha in mente la stessa paralizzante domanda materna quando decide di abbracciare la Resistenza, con l’incarico di raccogliere e confrontare i messaggi in codice dei compagni – per poi nasconderli fra le pagine del manoscritto su cui sta arrancando, «di gran lunga il posto piú sicuro in cui tenere qualcosa che non vuol far leggere a nessuno». E quando la sua cellula viene scoperta e cominciano gli arresti – cui l’«Irlandese» riesce a sfuggire solo grazie a una buona dose di imprevedibile intraprendenza – la sola opzione per lui e Suzanne resta la fuga. Il lungo, estenuante viaggio verso il Sud della Francia, affrontato a piedi e con mezzi di fortuna, è una vivida rappresentazione scenica della tirannia del corpo, fra piedi dolenti, denti malfermi e morsi della fame, e dell’inanità di ogni aspettativa. «Domani monsieur verrà senz’altro», propone Samuel per addolcire l’attesa di un aiuto salvifico, e Suzanne, anticipando il Vladimir di Aspettando Godot, sentenzia: «Oggi è già domani». Sembra la fine di tutto. Quale spazio può conservare l’arte in un mondo attanagliato dall’orrore della guerra? Eppure la scrittura si rivela essere un bisogno piú primario di quel che lo stesso Beckett avesse immaginato. «È come la bava delle lumache – gli suggerisce un’amica. – Non si riesce a fare un passo, se non si scrive». E quella che sembrava la fine diventa l’inizio: di una nuova estetica, se non altro. Avvicinandosi al venerato autore di Aspettando Godot, Jo Baker ripete il miracolo già compiuto con l’acclamato Longbourn House: frugare nel dietrole- quinte di una biografia arcinota e illuminarne elementi inediti. Ne emerge un’opera che è insieme storia d’avventura, romanzo di formazione e narrazione storica, e che sorprende a ogni pagina.

LONGBOURN HOUSE

Einaudi, 2014

 

Sarah è a servizio a Longbourn House da quando era bambina, ma non si è ancora rassegnata a certi compiti ingrati quali lavare la biancheria e svuotare i pitali dei signori. Questa pesante routine senza svaghi la opprime: non vuole accontentarsi di mandare avanti la casa d’altri come Mrs Hill, la governante, fa da sempre. Perciò, quando un giorno di settembre Mr Bennet assume a sorpresa un nuovo valletto, la gioia per la novità è grande. James ha il fisico asciutto e gli avambracci scuriti dal sole. Lavora di buon umore, fischiettando, ed è gentile, ma dà poca confidenza. Sembra sapere tante cose, eppure sul suo passato è stranamente vago. Ama i cavalli e dorme nel solaio della stalla: lí, su una mensola, ha dei libri e, sotto il letto, una sacca scolorita piena di conchiglie. È un mondo intero quello che apre per Sarah, una nuova geografia di orridi, vallette in fiore e campi di battaglia.
Ispirato al non detto di Orgoglio e pregiudizio, Longbourn House ricostruisce con tono brioso la vita della servitú nell’Inghilterra di inizio Ottocento, facendo emergere tra le righe la fatica e le disuguaglianze su cui si reggeva il bel mondo. All’interno di questo affresco storico, che oltre alla campagna dell’Hertfordshire include la Spagna sconvolta dalle guerre napoleoniche e i porti commerciali sull’altra sponda dell’Atlantico, Jo Baker dona pensieri ed emozioni autentici alle ombre che nel celebre romanzo di Jane Austen si limitavano a passare sullo sfondo rapide e silenziose.