BABELE

di Kenah Cusanit

1913, non lontano da Baghdad. Il celebre architetto e archeologo Robert Koldewey consulta un manuale di medicina e accusa tutti i sintomi descritti: sta per avere un attacco di appendicite. Come se non bastasse, il suo assistente Buddensieg continua a tormentarlo bussando ogni cinque minuti alla porta dello studio. Il compito di Koldewey è di proporzioni bibliche: riportare alla luce Babilonia. All’orizzonte si profilano minacciose le nubi di un conflitto che sconvolgerà il mondo. Sdraiato su un’ottomana, Koldewey guarda fuori dalla finestra. Osserva l’ansa dell’Eufrate, le palme da datteri, il giallo mesopotamico che tinge ogni cosa, e pensa. Nel cortile della casa, ventimila frammenti numerati e centomila frammenti non numerati suddivisi in cinquecento casse attendono di arrivare a Berlino, sull’Isola dei Musei, dove risorgeranno la porta di Ishtar, la facciata della sala del trono del palazzo di Nabucodonosor e i muri di fiancheggiamento della via delle Processioni. A pochi chilometri di distanza, quello che resta dell’Etemenanki, la leggendaria torre di Babele. Ma Koldewey si deve sbrigare, i suoi scavi sono il nesso tra Oriente e Occidente, sono al centro degli interessi ottomani, arabi ed europei, il suo progetto, senza volerlo, fa parte della competizione tra potenze, e bisogna salvare il possibile prima della catastrofe. Scritto dalla prospettiva dell’archeologo tedesco Robert Koldewey (1855-1925), responsabile della scoperta e degli scavi della città di Babilonia e della famosa porta di Ishtar, alternando al racconto elenchi, lettere e fotografie, Babele dà vita a una figura storica impressionante le cui riflessioni sulla sua vita e sui tempi sono ricche di intuizioni e ispirazioni.