PIU’ LONTANO ANCORA
Einaudi, 2014
Nel Pacifico meridionale, a ottocento chilometri dalla costa del Cile, c’è un’isola vulcanica dalle inaccessibili pareti verticali, lunga undici chilometri e larga poco piú di sei, popolata da milioni di uccelli marini e da nessun essere umano. Si chiama Masafuera, «piú lontana».
Spinto da quell’inquietudine che solo certi viaggi riescono a placare, Jonathan Franzen, qualche mese dopo l’uscita di Libertà, decide di raggiungere Masafuera e trascorrervi alcuni giorni. Insieme a lui soltanto una tenda, un GPS presto inutile, una copia di Robinson Crusoe e le ceneri di un amico morto suicida. Nella solitudine – non priva di avventurose e quasi mortali complicazioni – Franzen farà i conti con ciò che lega l’isolamento e il romanzo (il genere che insegna «come stare soli»), la modernità tecnologica con la sua valanga di stimoli superflui e la noia quale passaggio indispensabile per trovare se stessi. Ma farà anche i conti con il lutto, la perdita e la necessità, dolorosa, di parlare con i propri fantasmi: «la mia attuale fuga da me stesso era cominciata poco dopo la morte di David Foster Wallace, due anni prima. All’epoca avevo deciso di non affrontare l’orribile suicidio di una persona che amavo tanto, e avevo preferito rifugiarmi nella rabbia e nel lavoro».
Sia che raccontino di animali in pericolo e della minaccia che l’umanità rappresenta per la loro sopravvivenza, di come cellulari, Internet e social network trasformino i rapporti interpersonali, di amici (non c’è solo l’ombra di Wallace tra queste pagine) o di maestri (Alice Munro o Paula Fox, ad esempio), le ventuno riflessioni che compongono Piú lontano ancora, non importa se in forma di saggio, ricordo autobiografico o reportage, affrontano tutte lo stesso problema di fondo: come rimanere umani.